Buon pomeriggio amici,
come state? Finalmente siamo giunti a fine settimana, e manca meno di una settimana al mio viaggio per Roma. Non vedo l'ora!!! Ci sono nata in quella splendida città, ma ormai vivo da quattordici anni a Verona. Non che mi lamenti, ma sono due luoghi completamente diversi e tornare a Roma è sempre un piacere. Comunque ora bando alle ciance e veniamo a noi e al post di oggi, la pubblicazione della rubrica "Assaggi di lettura". Scegliere quale estratto postere è sempre difficile, ci sono tanti libri meravigliosi, ma per l'appuntamento di oggi ho deciso di inserire il primo capitolo di un libro che mi ha prestato una mia cara amica, "Lacrime di Cera" di Liliana Marchesini. La trama mi ricorda molto "The selection", ma non lo posso dirlo con certezza perché devo ancora inoltrarmi nella lettura del romanzo!
Lacrime di Cera
Liliana Marchesini
Prezzo Kindle € 2,99
Un Paranormal Romance Distopico, in cui Passato e Futuro si fondono dando vita ad un Presente... senza precedenti!
In un mondo distrutto dalla guerra tra le classi sociali, un nuovo Impero regna Sovrano, servito da automi dalla pelle rivestita di cera, ma dall’aspetto incredibilmente umano. Un Impero costruito grazie alle capacità di una società progredita, ma al tempo stesso regolamentato dalle usanze e dai costumi del lontano Ottocento. Protetta dalle fredde mura di un palazzo inespugnabile, in Russia, Camille vive la sua vita fra balli e ricevimenti, ignara di essere prigioniera di un’utopia. Contro il proprio volere, Camille verrà promessa al futuro Imperatore. Un uomo meschino, violento e incapace di amare. Mossa dalla disperazione, e in cerca di una via di fuga, Camille scoprirà l’esistenza di un sotterraneo segreto. Dove troverà Lui, sua unica possibilità di salvezza. Solo l’Amore può ridare vita ad un cuore straziato dall’odio, e la speranza ad un mondo ormai in lacrime. Prima che sia troppo tardi!
BREVE ESTRATTO
Prefazione
Cent’anni dopo…
1. Promessa
Nel 2017 un terribile crollo finanziario distrusse letteralmente il già precario equilibrio fra le classi sociali, causando una vera e propria rivolta.
La popolazione meno abbiente, spremuta fino al midollo dalle autorità e dalle famiglie più potenti, mossa dalla disperazione e dalla fame, si scagliò con la ferocia di un animale contro il Sistema che, troppo a lungo, l’aveva tenuta in gabbia.
Ma la rabbia, la determinazione e la sete di vendetta del popolo non furono sufficienti.
Le famiglie più ricche della Terra capirono che se si fossero unite, se avessero unito ogni loro mezzo a disposizione, sarebbero state in grado di tenere a bada la rivolta, e persino di metterla a tacere.
Fu così che dopo quasi un anno di battaglie sanguinarie, in cui molte nazioni persero i loro ricchi esponenti, le ultime famiglie potenti rimaste strinsero un’alleanza.
Si rifugiarono in Siberia, Russia, e presero il nome di Sovrani. Sotto la guida di Lev Vladirirovič Morozov edificarono una roccaforte, un castello impenetrabile costruito con i materiali più resistenti al mondo, e lì dentro, diedero vita al loro piccolo Impero Sovrano, ignorando che al di fuori delle mura del loro Palazzo di ferro, il popolo periva alla fame, alle malattie, e che veniva decimato giorno dopo giorno da misteriose ed inspiegabili sparizioni.
Cent’anni dopo…
1. Promessa
«Odio questi vestiti!», imprecai mentre Tasha, la mia cameriera personale, mi aiutava ad indossare, o meglio, ad imprigionare il corpo in crinoline di metallo, sellini imbottiti e qualsiasi altra stramberia stilistica in grado di dare ancor più volume agli abiti in taffettà.
La mia rabbia, però, non era rivolta né a Tasha, né all’abito che, in realtà, era uno dei più belli che avevo. Era il particolare motivo per il quale lo stavo indossando a mandarmi su tutte le furie. E come se potessi dimenticare l’evento più decisivo di tutta la mia vita, mio padre arrivò a ricordarmelo.
«Camille? Sei presentabile? Posso entrare?», la voce di mio padre Alexej sopraggiunse dalla porta che separava la mia stanza dal corridoio che conduceva agli alloggi.
«No, padre. Sono orribilmente inguardabile, e credo che lo sarò per il resto della serata!», avevo già avuto modo di esternare il mio dissenso a ciò che mio padre Alexej si aspettava che facessi per noi, per lui, ma era più forte di me. Non potevo fare a meno di rammentarglielo ad ogni occasione.
Aggrappata ad una delle quattro colonne di legno del letto a baldacchino, intenta a trattenere il fiato mentre Tasha stringeva senza alcun riguardo i lacci del bustino, con la coda dell’occhio seguii i movimenti dell’uomo che, con passo incerto, entrò richiudendosi la porta alle spalle.
Il solo fatto che indossasse la redingote blu notte con le decorazioni dorate di famiglia, la stessa che, sapevo, portava il giorno in cui aveva sposato mia madre, fu un’ulteriore riconferma di quanto fosse alta la posta in gioco quella sera.
«Camille, ti prego», iniziò mio padre in tono rassegnato, «Ne abbiamo già discusso a lungo, e gradirei non tornare sull’argomento».
«Gradireste non tornare sull’argomento?», mossa dall’impulso di aggredirlo verbalmente, sciolsi l’abbraccio con il quale mi tenevo stretta alla colonna per voltarmi in direzione di Alexej; facendo quasi cadere Tasha, ancora aggrappata ai laccetti del mio bustino. «E ciò che IO gradirei? Quello non conta non è vero?», non avevo uno specchio a darmi ragione, ma ero certa che in quel preciso istante la profondità della mia collera avesse oscurato la tonalità verde acqua dei miei occhi.
«Preferiresti che ci esiliassero Camille? O peggio ancora, preferiresti assistere all’uccisione di tuo padre, piuttosto che sposare Roman Ivanovič Morozov?», ora anche i riflessi turchesi delle sue iridi si erano oscurati.
Dopo aver udito quelle aspre parole, improvvisamente, il bustino che avevo indosso mi parve ancora più stretto.
Avrei voluto gridare. Urlare in faccia a mio padre che ciò che stava dicendo era pura follia, ma non ne ebbi il coraggio. Perché, in verità, vi era una remota possibilità che avesse ragione. Era risaputo che il padre di Roman, l’Imperatore Sovrano, Ivan L’vovič Morozov, non fosse un uomo clemente e incline a lasciar correre.
In piedi, al centro della mia stanza, rimasi ferma a guardare l’unico componente rimasto della mia famiglia, prendendomi qualche istante per pensare a cosa dire, a cosa fare.
Osservai il viso del solo uomo al quale avessi mai voluto bene. La fronte corrugata, gli occhi cerchiati di grigio. Era quasi irriconoscibile. Papà aveva perduto il suo fascino dal giorno in cui la mamma era scomparsa. E anche se erano già trascorsi dieci anni ormai, lui doveva sentirne la mancanza ancora come il primo giorno.
Scomparsa…
Come è possibile scomparire?
Oltretutto in una fortezza come quella in cui viviamo?!
Certo, vi sono moltissime stanze, corridoi, scalinate, ambienti comuni ma, dannazione! Seppur immenso, resta pur sempre un palazzo! Una persona può anche perdersi, ma non scomparire!
Ma ciò che i Sovrani intendono dire con il termine “scomparsa”, è ben altro.
“Siamo spiacenti di informarvi che la Sovrana Irina Dorianovna Petrovskaja ha violato il protocollo di sicurezza. Ha lasciato la fortezza addentrandosi in territorio nemico, e questo fa di lei una persona scomparsa”, queste furono le esatte parole che il capitano della Guardia, lo squadrone addetto alla sicurezza dell’Impero Sovrano, utilizzò per dire a una bambina di nove anni che non avrebbe più rivisto la propria madre.
«Camille?», la voce di Alexej mi risvegliò dallo spiacevole ricordo, che più tardi quella notte, come ogni notte, sarebbe tornato a tormentare i miei sogni. «Camille, avanti. Sai bene come stanno le cose. Roman è il figlio di Ivan, e se tu ti unissi a lui in matrimonio, diventeremmo intoccabili».
«Padre, ditemi di cosa avete paura. Per quale motivo è così importante che io diventi la moglie di Roman? Non possiamo semplicemente continuare a vivere (sopravvivere) come facciamo ora?», seguita da Tasha, che dopo aver finalmente terminato di allacciare il bustino si accingeva ad infilarmi la crinolina che avrebbe poi ricoperto con una doppia sottogonna e l’ampia gonna azzurra in tinta con il corpino e arricchita da un tablier in seta marezzata, mi avvicinai a mio padre per prendere le sue mani fra le mie, nella speranza che il suo tenero lato paterno venisse alla luce.
«Bambina mia. Non credere che darti in sposa ad un uomo che non ami mi renda felice. Ma i pretendenti rimasti non sono molti, e so che Roman non ti farebbe mancare nulla», sapeva che le sue parole erano come graffi sulla pelle per me, e forse fu proprio per alleviarne il dolore che prese ad accarezzarmi il dorso di una mano.
«Credete che mi importi qualcosa di tutto questo?», esclamai indicando con la mano libera la maestosa stanza in cui ci trovavamo.
Non contava nulla per me lo sfarzo nel quale ero cresciuta, anzi lo odiavo! La carta da parati beige con rifiniture dorate, il letto a baldacchino in legno con intarsi floreali sulla testata, le lenzuola di seta color rosa antico, i tappeti pregiati, ed un armadio straboccante di abiti in seta, taffettà, pizzo e organza.
Nulla di tutto ciò mi rendeva felice. I soli istanti in cui riuscivo a ridare un po’ di pace a me stessa, erano quelli in cui m’infilavo un paio di pantaloni neri consunti (lasciati incustoditi in uno degli alloggi della Guardia) e una blusa enorme color fucsia (ricavata dalla gonna di un abito ormai troppo stretto per essere indossato).
Ci sono notti in cui gli incubi intrecciati ai ricordi, si annodano intorno alla mia anima fragile impedendole di respirare, e sgattaiolare fuori dalla mia stanza abbigliata come un uomo, nascondendo la lunga chioma castano-dorata sotto al cappuccio di una cappa nera, mi aiuta ad andare avanti. Perché… anche se solo per poche ore nel cuore della notte, passeggiando per corridoi deserti riesco a far finta di essere altrove, di non aver perso l’amore di mia madre, e di non essere la preda più ambita dal figlio di un Sovrano senza cuore.
«La scomparsa di tua madre ha compromesso la sicurezza della nostra famiglia…», mio padre riprese a parlare, facendo finta di non notare il mio avvilimento, e il disgusto che si disegnò sul mio volto nell’udire le sue parole, «e se ancora non siamo stati puniti o scacciati per questo, è solo perché Roman nutre dell’interesse nei tuoi confronti», Alexej abbassò gli occhi sulle mie mani, ancora unite alle sue. Poi, dopo averle accarezzate un’ultima volta, le lasciò andare. Strinse i pugni, fino a farsi venire le nocche bianche, si schiarì la voce e senza degnarmi di un solo sguardo aggiunse: «Sei giovane Camille, e non pretendo che tu capisca. Un giorno, forse, comprenderai. Fino ad allora, però, farai come ti ordino».
Dopo avermi freddata con le proprie parole, l’uomo che avrebbe dovuto proteggermi sino al suo ultimo respiro, invece di darmi in pasto ai leoni, mi lasciò sola nella mia stanza dove Tasha terminò di prepararmi per il ricevimento che si sarebbe tenuto di lì a poche ore.
Lontana da occhi indiscreti mi lasciai andare allo sconforto, mentre una lacrima solitaria cancellava il finto rossore dalla mia guancia, costringendo Tasha a risistemarmi il trucco.
«Non lo riconosco più», singhiozzai.
La tristezza per ciò che stava per compiersi mio malgrado, e la mia totale impotenza di fronte a tutto ciò, mi si erano strette attorno alla gola come una morsa d’acciaio. Ma ancor più doloroso, era stare a guardare mio padre mentre si trasformava in un mostro assetato di potere. «Se la mamma fosse qui, non gli permetterebbe di darmi in sposa ad un… ad un…», il termine in grado di descrivere Roman non era ancora stato coniato, «ad un vile, codardo e spregevole essere come Roman!», ma utilizzarne più di uno aiutava a rendere l’idea.
In preda alle vertigini, e a un desiderio irresistibile di veder finire la mia vita seduta stante, istintivamente, rivolsi lo sguardo verso Tasha, come se mi aspettassi una parola di conforto, oppure un rimprovero per il mio linguaggio disdicevole, poco appropriato ad una signorina. Ma sapevo bene che non sarebbe mai uscito alcun suono dalla sua bocca.
Nel suo anonimo abito nero, ravvivato in parte dal bianco della cuffietta che le nascondeva i capelli ramati, si muoveva con la scioltezza di una persona vera, e aveva le sembianze di un’umana… Sebbene Tasha non lo fosse affatto.
La mia cameriera personale, come qualsiasi altro servitore del Palazzo, era un automa. Una macchina efficiente, in grado di svolgere le proprie mansioni con una certa dose di autonomia. E che dire dell’aspetto?! Curato in ogni minimo dettaglio.
Se non fosse stato per la particolare cera che le ricopriva la “pelle” conferendogli uno strano effetto lucido in alcuni punti del viso e delle braccia, ad una prima occhiata sarebbe stato impossibile distinguerla da un’umana qualsiasi.
«È un peccato che tu non abbia l’uso della parola. Mi avresti potuto aiutare a far rinsavire mio padre», dissi rivolgendomi a Tasha. «Oppure chissà, magari è meglio così dato che, al contrario, avresti anche potuto appoggiarlo dicendomi anche tu quanto la mia unione con Roman gioverebbe al buon nome della mia famiglia. Come se la famiglia Ivanov esistesse ancora…».
Quell’ultimo pensiero, sussurrato appena, mi pesò sul cuore come un macigno, e prima che le spire dell’inferno che, di tanto in tanto s’impadronivano della mia mente, potessero offuscare del tutto la mia lucidità, sentendomi una sciocca per aver intavolato un discorso con un automa, e disgustata da me stessa per aver anche solo pensato di sfuggire al mio destino agendo da codarda ponendo fine alla mia vita, mi alzai dal divanetto in velluto sul quale mi ero abbandonata alla tristezza, e andai di fronte allo specchio. Decisa a ritrovare la forza di andare avanti.
Tasha, che subito si affrettò a lisciarmi il vestito laddove lo avevo sgualcito sedendomi, aveva fatto uno splendido lavoro.
L’ampia gonna dell’abito azzurro metteva in risalto la sottigliezza della mia vita, resa ancor più esile dal corpino nel quale respirare a pieni polmoni era praticamente impossibile.
Morbidi e setosi, i boccoli castani ricadevano sulle spalle lisce e bianche come porcellana, abbracciate dal ricamo in pizzo della generosa scollatura. A contrastare quel pallore, simbolo di fragilità e debolezza, però, vi era il bagliore dei miei occhi. Occhi di un verde chiaro e trasparente come l’acqua. Occhi incapaci di nascondere i propri sentimenti. Occhi ardenti di rabbia, che non si sarebbero lasciati domare da nessuno, men che meno dall’uomo al quale quella sera sarei stata promessa.
*****
Ad ogni passo che facevo in direzione della sala dei ricevimenti, il peso delle gonne che indossavo pareva schiacciarmi a terra. Ma vestendo ogni giorno abiti come quello, sapevo che il peso che faticavo a portare non era rappresentato dalle gonne, bensì da ciò che provavo dentro di me.
Percorrevo il labirinto di lunghi corridoi dalle pareti color tortora, illuminato dalle applique a forma di candelabri, esibendo il portamento elegante e composto che meglio si addice ad una signorina, quando in realtà mi sembrava di essere una condannata a morte, con le mani legate e le catene ai piedi.
Non appena mi ritrovai di fronte alla porta a doppia anta, dietro la quale musica e risa si fondevano in un’unica aspra melodia, dovetti far ricorso a tutta la mia forza e al mio coraggio per reprimere l’impulso di voltarmi e scappare via.
Ai lati dell’ingresso, ingessati nelle loro tenute identiche per colore alla carta da parati grigio-beige, due automi aspettavano silenziosi il comando che avrebbe permesso loro di svolgere il proprio compito.
Il servitore di sinistra aveva corti capelli neri e occhi castani, mentre il servitore di destra era biondo ed esibiva uno sguardo azzurro, fisso davanti a sé.
Per un momento mi domandai per quale motivo l’Imperatore Sovrano, o per meglio dire colui che aveva realizzato gli automi, si fosse dato tanta pena per conferire loro un aspetto unico.
Insomma, se erano solo servitori, macchine, per quale motivo differenziarli fra loro? Non sarebbe stato più semplice costruirli tutti con il medesimo volto e la stessa corporatura?
Doveva trattarsi dell’ennesima stramberia richiesta da Ivan L’vovič Morozov o dal suo predecessore.
«Aprite», con voce tremante pronunciai il comando che i due automi aspettavano di ricevere.
E mentre il cuore cominciava ad aumentare i suoi battiti, osservai le mani luccicanti di cera dei servitori afferrare i pomoli d’ottone, e spalancare le porte.
Come l’onda di un fiume in piena, la luce accecante dei lampadari in cristallo, la melodia dei violini e l’aria tiepida intrisa di pettegolezzi m’investirono facendomi indietreggiare di qualche passo. Ma non appena avvertii lo sguardo teso di mio padre su di me, raddrizzai le spalle e sollevai il mento; nella speranza che la postura impeccabile nascondesse il disagio che provavo stando lì.
«Camille, mia cara!», scusandosi con un cenno della mano con Lord Biuford, che insieme alle tre figlie e alla moglie rappresentava l’ultima discendenza rimasta in vita della patria inglese, Alexej interruppe la conversazione per raggiungermi. «Sei bellissima tesoro», mentre mi porgeva il braccio per invitarmi a danzare, nei suoi occhi scorsi il bagliore dell’orgoglio paterno. Un orgoglio che, però, sapevo essere legato a ciò che si aspettava facessi quella sera.
Con le labbra serrate, per paura che si lasciassero sfuggire ciò che avrei voluto dirgli in quell’istante, mi sforzai di sollevare gli angoli della bocca per dare vita ad un sorriso. Un sorriso spento certo, ma pur sempre un sorriso. Poi, posando il mio avambraccio inguantato di bianco su quello di mio padre, accettai il suo invito a danzare.
La grande sala che si ergeva intorno a noi era la più maestosa del Palazzo, fatta sicuramente eccezione per le stanze private dell’Imperatore Sovrano e del figlio che, sebbene non avessi mai avuto occasione di vederle (grazie al cielo!), dovevano essere certamente un tripudio di magnificenza degno della loro tirannia.
Il pavimento sul quale le mie scarpette di raso iniziarono a muoversi con eleganza seguendo i passi di mio padre, era di un marrone scuro tirato a lucido come uno specchio, mentre di una tonalità più chiara erano le lunghe tende drappeggiate poste a ricoprire una porzione di parete qua e là. Osservandole, mi ricordai di quella volta in cui mia madre mi disse che, prima della grande rivolta, nelle case si adoperavano le tende non solo per decorare le stanze, ma soprattutto per oscurare la luce del sole che penetrava attraverso delle finestre di vetro. Io avevo solo sei anni, e come ogni altra volta in cui lei mi raccontava una storia riguardante il periodo antecedente alla rivolta, rimasi affascinata dalle sue parole, iniziando a tempestarla di domande fino a che non arrivava Alexej ad interromperci e ad ammonirla. Secondo mio padre non era saggio instillarmi nella mente certe immagini, soprattutto se non corrispondenti al vero. Per lui non erano altro che stupide storie tramandate di madre in figlia, e nate dalla fervida immaginazione della mia bisnonna che era vissuta al tempo della rivolta.
Ad ogni modo, dietro le tende della sala dei ricevimenti non vi era nulla, solamente un muro rivestito di carta da parati.
«Camille, ho ragione di credere che il Sovrano Lord Biuford voglia attirare l’attenzione di Roman su una delle sue tre figlie. La più piccola credo», la voce di mio padre era a malapena udibile attraverso le note dei violini, che automi vestiti di nero accarezzavano con i propri archetti; apparendo ai miei occhi ancora più umani di quanto fosse possibile.
«E cosa ve lo fa credere, padre? Lord Biuford si è confidato con voi?», sollevando appena le sopracciglia, trasmisi involontariamente quanto poco credessi probabile che, colui che era stato uno dei primi dopo la scomparsa di mia madre ad evitare me e mio padre come fossimo i portatori di una malattia mortale, malgrado anche alcuni Sovrani appartenenti alla sua stessa casata risultassero “scomparsi”, avesse deciso di confessare un tale progetto proprio ad Alexej.
Mio padre, però, stava alzando il braccio per farmi volteggiare verso il centro della sala, cosa che fecero anche gli altri cavalieri con le loro dame, e non si accorse del passaggio fugace di quell’espressione sul mio viso.
«Non essere sciocca, Camille. L’ho intuito dal suo interesse nella tua assenza, e dal modo in cui guardava la figlia Dalìa».
Non riuscii a trattenermi. Senza smettere di danzare, e senza nemmeno alzare la voce, lo accusai, «La guardava come tu guardi me?».
Per un momento il viso di mio padre sbiancò, ma poi dopo un attimo di esitazione il sangue prese a ricolorargli le guance, «Sono certo che questa sera, e nei giorni a seguire, saprai mostrare l’educazione e le buone maniere che ti sono state insegnate da tua madre».
Che mossa scorretta! Citare la mamma per far leva sulla mia coscienza? Sull’affetto che nutrivo per lei?
«Non ha fatto in tempo a dirmi come ci si deve comportare in occasione della prima notte di nozze, padre. Lo volete fare voi?», non so come, riuscii a ricacciare indietro il rossore prima che m’inondasse le gote. La mia condotta era a dir poco imperdonabile, e imbarazzante.
Mentre Alexej si sforzava di non perdere le staffe, mi resi conto di aver esagerato, anche se una parte di me gioì per l’ottimo colpo assestato!
Se mio padre fosse sul punto di rimproverarmi pubblicamente o no, non mi fu dato sapere. Infatti dopo un’ultima giravolta la musica si fermò il tempo sufficiente per consentire alle dame di cambiare cavaliere, e Roman, che non avevo nemmeno visto arrivare, si fece avanti per chiedere a mio padre il permesso di farmi danzare.
«Sovrano Alexej Aleksandrovič Ivanov, mi consentite di invitare vostra figlia a danzare il prossimo Valzer?».
Con indosso la sua uniforme bianca, costellata di bottoni dorati e stemmi di famiglia, mise confezionata appositamente per occasioni come questa, Roman attirava gli occhi di tutti su di sé.
In quel momento ero pronta a scommettere che tutte e tre le figlie di Lord Biuford, non solo la piccola Dalìa, e qualsiasi altra donna presente in sala, stessero segretamente immaginando di poter posare le loro mani vellutate sulle possenti spalle di Roman, o sulle muscolose braccia. E magari alcune di loro, nelle più audaci fantasie, si sarebbero persino spinte ad accarezzargli i corti capelli neri; constatando che dopotutto non erano poi così soffici come sembravano.
«Certamente Sovrano Roman Ivanovič Morozov. Avete la mia benedizione», mio padre non aspettava altro.
«Camille Andreevna Ivanova», Roman mi porse il braccio affinché accettassi il suo invito, ma la sola cosa che riuscivo a pensare in quel momento, era quanto fosse sgradevole il mio nome sulle sue labbra.
Nello stesso istante in cui la mia mano, controvoglia, sfiorò la sua, la musica riprese a suonare, e il vortice delle danze ci trascinò al centro della sala.
Inevitabile conseguenza della posizione nella quale mi trovavo, il viso di Roman occupava gran parte della mia visuale, e sostenere il suo sguardo era alquanto doloroso, dato che i suoi occhi nocciola sembravano volermi divorare l’anima.
«Quando non vi ho vista arrivare, temevo steste poco bene», affermò. Come se gli importasse qualcosa della mia salute.
«Lo sono tutt’ora», dissi freddamente.
«Intendete dire malata?».
«No. Intendo dire sofferente!», la durezza con cui gli risposi sorprese persino me. Tenere a bada la mia indignazione riguardo alla faccenda del fidanzamento si stava rivelando più difficile di quanto sperassi.
Ma se Roman colse l’offesa implicita nelle mie parole, non lo diede a vedere, non alle persone intorno a noi almeno.
Mantenendo l’elegante postura richiesta dal ballo, strinse le dita della mia mano finché un gemito di dolore mi sfuggì dalle labbra. Una reazione che generò sul suo volto un malefico sorriso compiaciuto.
«Camille, Camille… Credevo che vostro padre vi avesse convinta a fare la brava. Devo supporre di non essere stato abbastanza convincente nell’avanzare la mia richiesta di volervi in moglie?».
«Cosa?», sapevo che Roman aveva un debole per me, ma credevo che fosse mio padre a volermi spingere a tutti i costi fra le sue braccia, non il contrario.
«Non importa mia cara. Gli affari intercorsi fra due gentiluomini non sono argomento per una giovane donna. Levatevi quell’espressione mesta dal viso, rovina la vostra bellezza. E poi, tutto sommato credo che sarà un piacevole passatempo domarvi», approfittando della giravolta che seguì il nostro ultimo passo di danza mi allontanai da lui volteggiando, ma Roman rafforzando la stretta intorno alla mia mano, mi fece capire che più scappavo, più il suo desiderio di avermi aumentava.
Quando poi, sempre volteggiando, tornai di nuovo di fronte a lui, quell’essere spregevole mi attirò a sé con forza facendomi andare a sbattere di proposito contro il proprio petto.
Sconcertata dall’accaduto istintivamente sollevai il mento, ma prima che potessi scoprire quale fosse stata la reazione degli altri Sovrani di fronte a quella scena, incontrai lo sguardo di Roman.
Nei suoi occhi non vi trovai la dolcezza e l’amore che avevo sempre sperato di trovare nell’uomo che avrei sposato. Nei suoi occhi nocciola, ardenti di un fuoco che avrebbe potuto bruciare qualsiasi cosa… vi intravidi solamente la fine delle mie speranze, la fine della mia vita.
La fronte alta, i lineamenti spigolosi. Ogni particolare del suo volto, ai miei occhi appariva sgradevole e minaccioso.
«Non potete sfuggirmi Camille. E presto staremo più vicini di così», il solo pensiero delle sue braccia intorno al mio corpo mi diede i brividi! «Avete gli occhi lucidi mia cara. Suppongo siate emozionata per il nostro fidanzamento».
Non volevo che quel verme mi vedesse piangere, non potevo sopportare un’umiliazione simile, perciò feci il possibile per impedire alle lacrime di bagnarmi il viso e per sciogliere il nodo alla gola in modo da riuscire a parlare.
Ma Roman mi precedette.
«Tranquilla. Questo ballo non conta, era solo una scusa per far parlare di noi e… dallo spettacolo che state dando, non sarà difficile far credere agli altri Sovrani che vi siete lanciata fra le mie braccia. Ahahah, letteralmente direi», a quelle parole cercai di divincolarmi dal suo abbraccio.
Roman allentò la presa, ma prima che potessi liberarmi del tutto mi afferrò per un braccio e avvicinò la bocca al mio orecchio.
«Camille, al prossimo ballo annunceremo le nostre nozze. E da quel giorno… sarai mia!».
Il senso di terrore misto a impotenza mi provocò un forte senso di vertigine, e quando Roman allentò la stretta per poco non persi l’equilibrio.
Come se niente fosse le corde dei violini avevano ripreso a vibrare, facendo riecheggiare nella sala le note di una Quadriglia che aveva già riempito la pista da ballo.
Con il fiato corto e i nervi a fior di pelle, indietreggiai in direzione dell’uscita.
Lo sguardo minaccioso di Roman non mi aveva ancora abbandonata, esattamente come la sensazione di dolore nei punti in cui le sue dita avevano premuto violentemente.
Trattenni le lacrime fino a che non ebbi oltrepassato la porta, una volta raggiunta la desolazione del corridoio, però, mi voltai e lasciai che il dolore m’inondasse il viso.
Scossa da tremiti e singhiozzi, corsi a perdifiato ripercorrendo a ritroso la strada che avevo fatto per giungere sino a lì; desiderando ardentemente di poter fare lo stesso con la mia vita.
Che cosa ne pensate? Conoscevate già questo romanzo?
Approfitto della pubblicazione del post per parlarvi di un'altra rubrica che ho intenzione di postare settimanalmente sul blog. Si chiama "I lettori consigliano", ma per mettere in atto quest'idea ho bisogno dell'aiuto di voi lettori. Ormai avrete capito che sono sempre alla ricerca di nuovi libri da leggere e adoro arricchire la mia lista di libri da leggere, così ho pensato di creare questa rubrica. Per aiutarmi voi lettori dovrete soltanto inviarmi un'email all'indirizzo: flightbookblog@gmail.com . Nell'email dovrete soltanto scrivere il titolo di un libro che avete adorato e che pertanto mi consigliate di leggere. Io a fine settimana prenderò tutti i vostri consigli e creerò un post così tutti possono leggere le trame dei libri da voi consigliati e io, tra questi, ne sceglierò uno da leggere e recensire, o anche più di uno se mi incuriosiscono. Una bella rubrica che ci farà scoprire nuovi romanzi che gli amanti della lettura hanno adorato. Che ne dite? Vi piace l'idea??? Aspetto le vostre email allora! Un bacio :)
bellissima quest'idea! *-* quasi quasi la adotto anche sul mio blog (citandoti ovviaente :3) Comunque ah vieni a Roma :) Pensa che in Italia, Verona è una delle città che preferisco.. forse perchè amo Romeo e Giulietta! :) mi è piaciuta molto, e se potessi, ci tornerei! ^^ Anche se, per me, Roma è Roma <3
RispondiEliminaVerona è bella "esteticamente", ma non offre alcuno svago purtroppo. Qui non c'è niente da fare. Ci sono milioni di bar, pizzerie e centri commerciali. è un posto tranquillo. Però è bello poter cambiare aria ogni tanto. :)
EliminaSono contenta che l'idea ti sia piaciuta :D
Il libro mi attira^-^
RispondiEliminaAnywaay, bella proprio l'idea della nuova rubrica*^* magari ci faccio un pensierino anche io, chissà!
Penso al libro e ti invio una mail:)
Grazie mille!!! Aspetto con ansia la tua email allora. Un bacio Ali :-*
EliminaVieni veramente a Roma!!!!! Non ci credo spero che la città eterna ti faccia innamorare come fa con me ogni giorno <3
RispondiEliminacmq ti invio adesso la mia email !!!
questa idea è troppo origina forse la adotterò anche io ma facendo una citazione gigantesca!! XDXD
Xmq io sono venuta a Verona a Febbraio e l'ho trovata bellissima!! non lo sapevo che vive li .. vicino a Romeo e Giulietta <3
E io non pensavo fossi di Roma. Accidenti ho trovato due romane, come me!!! Come sono contenta :D
EliminaSono contenta che l'idea sia piaciuta anche a te. Allora aspetto con ansia anche la tua email.
Un bacione Marti :-*